Davide Ghaleb Editore |
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Introduzione "Il Libro dei Cimini" |
Le premesse per l’avvio dell’esperienza culturale del Museo della Citta e del Territorio, inaugurata nell’ottobre 1991 da chi scrive e da Elisabetta De Minicis, datano alla fine degli anni ‘70.
Si è trattato dapprima dell’esperienza maturata nell’ambito di una ricerca regionale su Barbarano Romano (1979) coordinata con straordinaria efficacia da Tito Spini e all’interno della quale i diversi contributi specialistici-naturalistici, linguistici, antropologici, storico-urbanistici, fotografici - hanno mostrato di saper proporre un tipo di indagine, insieme analitico e di rara suggestione, radicalmente innovatore. È stata poi la volta dell’Atlante Storico delle città italiane, il cui primo volume, di chi scrive e di G. Petrucci, è stato dedicato a Caprarola (1986), seguito poi dal volume su S. Martino al Cimino, della stessa autrice (1987.). Tra le prime ricerche universitarie avviate, sulla doppia linea dell’archeologia medievale e della storia territoriale , urbana, edilizia, occorre citare Le mura medievali del Lazio (1990-92) e il relativo convegno di Acquapendente (1992). A partire dagli stessi anni sono state assegnate numerose tesi di laurea coordinate, sia presso la Facoltà di architettura che presso la Facoltà di lettere dell’Università di Roma “La Sapienza”: prime fra tutte quelle su Viterbo di Laura Contus, Gabriella Casertano e Vito Amatulli (1990) che hanno preso in considerazione rispettivamente le case medievali, i mulini del territorio e il sistema degli acquedotti e delle fontane. Le mostre presso il Museo di Vetralla (dal 1992), l’avvio della collana del Museo dell’Editore Kappa di Roma (dal 1993), della rivista semestrale “Studi Vetrallesi”dell’Editore Davide Ghaleb di Vetralla (dal 1998) e delle collane del Museo dedicate alla Tuscia (Quaderni della Tuscia), dello stesso editore (dal 2000) hanno consentito la pubblicizzazione e la pubblicazione di parte di ricerche che, al di là del loro specifico valore, hanno esercitato nel complesso una forte influenza sulla cultura locale proponendo costantemente nuove tematiche e nuove metodologie di studio. A dieci anni di distanza dalla fondazione del Museo della città e del territorio (1991) e a quindici dalla pubblicazione del volume, curato da chi scrive, Lazio in cartolina. Archivio per una identità regionale (Roma, 1985), questo libro si riallaccia alla prima, fortunata mostra allestita presso il Museo di Vetralla (Immagine della Tuscia, primavera 1992). Dedicato all’area geografica dei Monti Cimini, comprendente circa la metà dei comuni facenti parte della provincia di Viterbo, questo volume della collana del museo “Quaderni della Tuscia” ha lo scopo di contribuire ad una maggiore conoscenza dei centri storici e del paesaggio riproponendo, accanto ad una raccolta di cartoline appositamente costruita allo scopo, la documentazione fotografica tratta dal volume di Sante Bargellini (1914) e le descrizioni del territorio e dei centri abitati riprodotte dalla prima guida dettagliata, quella Guida del Lazio di Antonio Abbate (2a ediz. 1894) che è stata fino a oggi curiosamente trascurata. L’intenzione dichiarata è di ricostruire e documentare, grazie a queste tre sole fonti tipologicamente diverse ma reciprocamente integrate, l’identità ambientale dell’area dei Cimini, senza alcuna velleità di completezza ma, al contrario, finalizzando l’opera ad una funzione di ulteriore conoscenza e di stimolo per una migliore salvaguardia del territorio, dei centri antichi, dell’arredo urbano. Contrariamente a gran parte dei volumi costruiti sull’immagine (e in primo luogo è doveroso citare le numerose opere, basate su una ricchissima collezione privata, dedicate alla Tuscia e ai suoi centri da Mauro Galeotti), non intendiamo qui celebrare nostalgicamente un mondo perduto, ma piuttosto aprire un dibattito, basato su realtà poco conosciute ma di notevole forza evocativa, su quanto è accaduto nel secolo passato e su quanto in futuro si potrà fare per recuperare ciò che resta dell’autenticità ambientale e dell’edilizia storica anche non monumentale. La contemplazione deve essere funzionale all’azione; ed è per questo motivo che non solo viene fornito un quadro attuale della bibliografia su ciascun centro, ma viene esplicitato il rapporto del Museo con il territorio su cui si sono concentrati specialmente studi e sperimentazioni nel corso di un decennio di attività legata alla ricerca e alla didattica universitaria. Gli interventi di modernizzazione, i restauri, l’estensione dell’area urbanizzata all’esterno dell’antico perimetro e, in definitiva, la perdita del carattere rurale sono eventi che hanno naturalmente seguito un ritmo diverso, nell’ultimo secolo, a Viterbo e nei centri minori dell’area considerata. L’aspetto selvaggio - o solo selvatico - del territorio incolto e delle aree archeologiche e la diffusa povertà che traspare dalle più antiche immagini dell’interno dei paesi non devono però trarre in inganno essendo testimonianza non di arretratezza culturale ma principalmente di marginalità rispetto a zone più direttamente collegate con le grandi vie di comunicazione e con la stessa capitale. In un primo tempo le ferrovie, la villeggiatura estiva, i primi flussi turistici attirati dalle ville, dai monumenti medievali e dalle necropoli etrusche non incidono se non limitatamente sulla qualità paesaggistica e sul patrimonio residenziale antico, e solo a partire dal secondo dopoguerra si sposta in modo irreversibile l’equilibrio tra i centri storici e l’ambiente circostante, con conseguenze catastrofiche per ogni realtà non inserita tra i monumenti ufficialmente tutelati. A fianco di pesanti modificazioni colturali (ad esempio la coltura del nocciolo introdotta nella conca del lago di Vico, le cui sponde si presentavano prive di vegetazione), opere di sempre maggiore impatto ambientale hanno gravemente segnato il territorio, mentre quasi ovunque si costruivano dapprima ville, quindi nuovi quartieri residenziali e seconde case in zone prossime al nucleo antico. Quasi sempre i valloni boschivi che delimitano gli insediamenti di origine etrusca e medievale hanno fino ad oggi funzionato da barriera protettiva, costringendo a maggiore distanza le aree di espansione; ma è comunque in gran parte perduto il sistema delle vedute paesaggistiche dei centri così come sono documentate dalle antiche immagini e anche (vedi Viterbo) il rapporto tra le mura e l’ambiente circostante. Molte porte urbane sono andate perdute e si è così perso il senso del limite dell’insediamento (Blera, Vetralla). Nel profilo paesaggistico i danni più gravi sono stati provocati, naturalmente, dalla mancata tutela delle aree più vicine al centro, compromesse da costruzioni moderne (Orte, Vetralla, S.Martino al Cimino, Soriano, ecc.) Oltre al capoluogo. Ma non mancano clamorose perdite come la torre di Barbarano, crollata nel 1937, che era il perno di ogni veduta panoramica. Nell’elencare i guasti verificatisi al patrimonio architettonico e ambientale e all’arredo interno occorre premettere che, fatte salve anche qui le intenzioni speculative, molto deriva dalla carenza legislativa e dall’ignoranza degli amministratori e degli stessi organi di tutela che spesso, con l’intenzione di restaurare o “abbellire”, hanno modernizzato e rovinato. La mancata tutela dei centri storici nel loro complesso, e in modo specifico delle mura, delle pavimentazioni, delle case e delle torri medievali e dei profferli, delle facciate esterne, delle fontane e dei lavatoi non monumentali e, in generale, delle manifestazioni autentiche anche se meno vistose dell’artigianato e dell’industria locale (come i portoni in legno) ha fatto sì che si sia conservato solo ciò che casualmente o per interessamento dei singoli è sfuggito al degrado o alla radicale sostituzione con materiali moderni. In assenza di una politica statale, e di un controllo comunale, è stato possibile aggiungere balconi e gabinetti esterni un po’ ovunque, sostituire pregiate pavimentazioni antiche (Vitorchiano, Vetralla ecc.), intonacare oppure cementare murature medievali originali, consentire praticamente la distruzione dei profferli trasformati in scalette di periferia grazie a nuove ringhiere in ferro e a gradini in cemento. Al posto delle targhe stradali in marmo (di origine ottocentesca) si preferiscono oggi vezzose targhe in ceramica (Viterbo) ed è quasi del tutto scomparso il patrimonio di immagini sacre, antichi lampioni, frammenti archeologici inseriti nelle murature, per non parlare degli stemmi. Il saccheggio non è recente, come testimonia un importante passo di Sante Bargellini riferito a Ronciglione: “...a Ronciglione, come in quasi tutti questi paesi del Cimino, sono stati esiziali gli antiquari. Fa veramente pietà ed ira ad un tempo, il vedere la sistematica spogliazione a cui sono stati sottoposti per molti e molti lustri. Dopo averne portato via i quadri, le statue, i bronzi, i sarcofaghi, gli affreschi, le iscrizioni, in questi ultimi anni gli antiquari - stranieri e italiani - si sono attaccati agli stipi delle porte ornamentali, alle finestre, ai caminetti, alle grosse e avite casse della biancheria, ai lampioni. Anche ai lampioni, sicuro! Ronciglione, dove l’arte del ferro è antichissima, aveva ai portoni delle case, alle finestre, dei superbi sostegni artistici di lampade e lampioni, sono stati smurati, venduti ed hanno emigrato per formare ora il lusso di chi sa quali lontane case.” (1914). Oggi a questo elenco potrebbero aggiungersi tegole, orci, elementi di pavimentazione, manufatti di peperino lavorato, stemmi ecc.; Materiali che servono per “arredare” case di paese o casali ristrutturati. L’uso degli spazi, interni ed esterni, è del resto cambiato: basta pensare alle cantine (oggi per lo più in disuso o utilizzate per tavolate in occasione di feste paesane) e alle fontane, un tempo intensamente e quotidianamente vissute. Le antiche immagini ci mostrano come piazze e strade fossero anche commisurate alla dimensione delle grandi botti e come i sedili utilizzati dalla popolazione fossero non già le panchine oggi disseminate qua e là come in un giardinetto, ma i solidi e assai più panoramici gradini davanti alla porta di casa. Quanto al trattamento riservato alle facciate solo la caduta provvidenziale di qualche vecchio intonaco consente di osservare ancora autentiche murature medievali mentre, insieme agli intonaci in cemento, gli antichi infissi sono gradualmente sostituiti. Sia dalle immagini qui raccolte sia da quanto ancora è possibile osservare nelle parti meno trasformate dai centri storici, emerge comunque un modo corretto di interpretare il problema che affonda le sue radici nella tradizione popolare degli ultimi secoli e che consentirebbe di salvaguardare sia la giusta esigenza di rinnovare gli interni e le aperture sia l’altrettanto corretta opportunità di non obliterare la muratura rustica degli esterni. Si tratta della cornice ad intonaco, vera e propria estensione dello spazio interno che si risolve in una fascia di tinteggiatura bianca a calce che incornicia soprattutto le finestre, imitando in sostanza le più antiche e nobili cornici in pietra. La tematica che questo volume illustra ha una forte attualità: da molte parti si auspica una inversione di tendenza capace di tutelare l’antico patrimonio di valori senza, ovviamente, dover rinunciare ad una prospettiva di sviluppo. Su questa linea sono stati promossi incontri di studio e di dibattito coinvolgendo le amministrazioni locali: il primo (21 gennaio 2001) si è tenuto a Vetralla, presso il Museo, ed è stato organizzato da “Vetralla Città d’Arte”; il secondo (21 gennaio 2002) si è svolto a Roma, presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia”. La documentazione qui presentata potrà costituire una efficace premessa per il terzo incontro, previsto nel gennaio 2003, dedicato in modo specifico ai problemi di controllo e tutela dell’edilizia storica della Tuscia e allo strumento legislativo del Regolamento per l’ornato. Questo libro, aderendo alla partizione geografica dell’Abbate, offre un panorama dell’area cimina assai più ampio di quanto oggi sia commercialmente avvertito, o di quanto rientri nelle competenze della Comunità Montana dei Cimini. Occorre tuttavia considerare che gli ambiti territoriali capaci di esprimersi storicamente con caratteri di evidente omogeneità hanno confini ed estensione fortemente condizionati da caratteristiche e risorse ambientali particolari. Tra tutte le risorse dell’area cimina, quella più forte e unificante ci sembra l’abbondanza dell’acqua, determinante non solo per le colture agricole, le attività industriali (Ronciglione) e la vita quotidiana, ma anche per la realizzazione delle fonti medievali di Viterbo come di tutte le più importanti ville storiche della Tuscia, da Bassano a Caprarola e Vignanello, da Bomarzo a Bagnaia e Soriano. L’acqua è protagonista nella formazione normale del paesaggio come nell’artificiosa invenzione di laghetti, cascate e fontane. Il volume, nel semplice succedersi delle descrizioni degli insediamenti secondo un senso orario - da San Martino al Cimino a Vetralla - si presta a molteplici utilizzazioni e interpretazioni. Vogliamo comunque segnalare alcuni tra gli spunti più significativi, o semplicemente rappresentativi di situazioni ricorrenti, che se ne possono trarre. Per Viterbo va attentamente considerata, per l’impatto che può avere una riduzione culturale sull’immaginario collettivo, la sintesi scenografica realizzata a Roma per la mostra delle Regioni nel 1901 consistente nell’accostamento fra tre costruzioni “medievali” come la Casa di Valentino della Pagnotta, la casa Poscia e la Fontana di Piano Scarano (pp. 37-38). Molto importanti, e non conosciute dalla storiografia, sono le cartoline che illustrano il Sacro Bosco di Bomarzo prima delle manomissioni e risistemazioni del secondo dopoguerra (p. 67). Errori di sistemazione geografico-amministrativa sono all’ordine del giorno, e ancora oggi possono pesare sugli itinerari turistici: Tempio di Orlando presso Barbarano invece che presso Capranica (p.141), Faleri Novi nel territorio di Civita Castellana ma invece in quello di Fabrica di Roma (p. 107). Tra gli ambienti più manomessi si possono segnalare il Bullicame e Piazza del Duomo a Viterbo (pp.27 e 39), la piazza di Cura (p. 166) e gran parte delle piazze estreme alle porte principali di accesso. Tra i danni causati dai bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale il più grave è quello sofferto da Vetralla: distruzione della Rocca dei Vico, della adiacente chiesa, della Porta Romana (pp.161-162). Infine, sempre a Vetralla si può ammirare l’antica nobiltà della bella facciata della grande casa d’affitto in Via Roma, oggi deturpata da dieci balconi (p. 165). Dal punto di vista paesaggistico si segnala l’ambiente brullo del Lago di Vico, oggi completamente trasformato dalla coltura intensiva del nocciolo (pp.16-17).
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